Il progetto di arte pubblica ideato da Parsec in collaborazione con Andrea Gianfanti per lo spazio antistante l’ingresso del Dipartimento di Scienze Aziendali dell’Università di Bologna – con sede in via Capo di Lucca 34 – intende indagare, mediante differenti soluzioni creative, come la narrazione dello spazio pubblico cambia a seconda della diversa modalità di interazione con le superfici urbane.

L’intento del progetto è quello di voler ascoltare, valutare e comprendere – mediante osservazioni e analisi etnografiche – la relazione che si crea tra gli interventi presentati e le diverse possibili forme d’interazione creativa.
Gli interventi artistici che verranno realizzati mirano dunque a dialogare costruttivamente con tutti e tutte coloro che sentono la necessità di esprimersi all’interno di quello spazio. Il progetto propone un vero e proprio dialogo tra lo spazio pubblico e le persone che lo attraversano, creando un dispositivo dinamico che stimoli una partecipazione continua e attiva insieme a una riflessione sulle diverse immagini. L’obiettivo non è quindi cancellare o limitare le precedenti forme di street art perché meno meritevoli di quelle proposte, ma di diventare interlocutori e interlocutrici attivi. Proponiamo dunque un intervento di arte pubblica site-specific che apra un dialogo interessante sulla percezione, la reazione e la ri-manipolazione delle immagini oggi.
Riflettiamo su tre tipologie di immagini differenti, ma ugualmente presenti nella nostra quotidianità: il carino dell’era del post-internet, la rappresentazione antropocentrica del cambiamento climatico e la ricerca, tramite il gioco, di realtà parallele.


1. Il carino nell’era post-internet
Diverse implicazioni della cuteness delle immagini


Il primo intervento prevede l’affissione di immagini di gattini. Lo stesso Tim Berners-Lee, creatore del World Wide Web, quando gli fu chiesto quale fosse un uso inaspettato di internet, rispose con questa parola: “gattini”. Soprattutto grazie ai social network, ai meme, agli stickers e agli emoji, i gatti, come altri animali, sono immagini a cui veniamo spesso sottoposti nella nostra quotidianità e che ci provocano un temporaneo senso di conforto e leggerezza che ben si inserisce tra l’ansia e le costanti preoccupazioni a cui siamo continuamente sottoposti.

La cuteness, come è stata recentemente definita dal filosofo Simon May nel suo libro Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili (Luiss University Press, 2021), è un elemento onnipresente nell’era post-internet e la sua diffusione quotidiana è accentuata dalla sua apparente innocenza. Per via della sua flessibilità estetica, il carino può facilmente mescolarsi con il grottesco e l’inquietante, rendendo le sue manifestazioni spesso destabilizzanti.
Claire Catterall, curatrice della mostra CUTE, realizzata su questo tema alla Somerset House a Londra nel 2019, afferma: 

La cuteness è indubbiamente l’estetica più prominente dei nostri tempi. […] Mentre satura la nostra epoca mediata digitalmente, la tenerezza ci nutre e ci spinge in modi che suggeriscono che c’è molto di più di quanto il suo esterno adorabile e apparentemente innocuo possa implicare. Moralmente ambigua e talvolta paradossale, il suo potere risiede non solo nella sua capacità di sfidare la norma, ma di trasformarla.

Lo scopo di questo intervento è dunque riflettere sulle varie implicazioni della cuteness, osservando l’interazione che le immagini dei gattini possono suggerire.
La cuteness dell’immaginario contemporaneo trae origine direttamente dalla cultura Kawaii giapponese, che ha raggiunto fama mondiale negli anni ’90 grazie a manga e anime. In Giappone, il Kawaii ha assunto un ruolo identitario e rivoluzionario, opponendosi alle norme sociali conservative. Nonostante la sua componente più sovversiva, il carino è facilmente sfruttabile dal sistema neoliberale, poiché il suo potere risiede nella piacevolezza del messaggio superficiale che propone: rendere tutto migliore, più bello, più divertente e più tenero. Le immagini proposte, tuttavia, sono spesso superficiali e anestetizzanti, esprimendo così il potere di controllo sistemico legato oggi all’immagine digitale. Il carino non si presenta dunque solo come un’estetica di consumo, ma possiede molteplici potenzialità – sia pratiche che teoriche – utili per affrontare questioni fondamentali della nostra società, costantemente instabile.

2. La rappresentazione antropocentrica del cambiamento climatico
Estetizzazione dell’Antropocene: come il problema dell’inquinamento della Pianura Padana diventa un’astrazione.

Il secondo intervento è un’immagine astratta derivante dalle fotografie satellitari di quello che è effettivamente il paesaggio astratto più vasto d’Italia: la Pianura Padana. 

Il paesaggio della Pianura Padana presenta oggi una vegetazione formata principalmente da cereali, da piante per l’alimentazione degli animali, allevati principalmente in modo intensivo, e alberi da frutto. Si tratta di un paesaggio in cui la vegetazione erbacea prevale su quella arborea, simile a una sorta di “steppa cerealicola”, un ambiente antropizzato, molto diverso da quello naturale preesistente. Durante la sua espansione, nella pianura si formarono fitte foreste costituite da alberi di diverse specie. Con la ripresa economica e sociale dell’area, ebbe inizio una definitiva deforestazione, accompagnata da un’imponente ed incessante edificazione del territorio. Nel XIX secolo non rimaneva ormai più nulla dell’antica foresta e il paesaggio era ormai artificiale, non troppo dissimile da come lo si vede oggi. Oggi restano rarissimi lembi dell’originaria copertura forestale: quello che si osserva è il più vasto paesaggio artificiale d’Italia. 
“Impossibile vivere così: la Pianura Padana italiana colpita da un inquinamento atmosferico tra i peggiori d’Europa”: titola così un articolo del The Guardian che introduce uno studio secondo cui la popolazione del luogo, in particolare i cremonesi, sostengono che la vita stia diventando insopportabile a causa dell’inquinamento provocato dall’industria, dalle automobili e dai rifiuti degli animali da allevamento.

Così, un “drago di nebbia” emerge sopra la Pianura Padana nell’immagine del satellite Sentinel-3 del programma europeo Copernicus catturata lunedì 29 gennaio 2024. Nell’immagine si vede il mare di nebbia che assume questa curiosa forma, con l’“occhio” su Milano generato dall’isola di calore della città e le Alpi imbiancate.
Come scrive l’antropologo Tim Ingold:
“Il significato dell’immagine del globo nel linguaggio del dibattito contemporaneo sull’ambiente è problematico proprio perché rende il mondo come un oggetto di contemplazione distaccato dal dominio dell’esperienza vissuta.”

L’intento di questo intervento è quindi quello di interrogarsi sulla cultura visiva del paesaggio e della crisi climatica oggi, e del distacco che potrebbe conseguirne a causa proprio delle sue modalità di rappresentazione. Draghi di nebbia, così come le macchie colorate derivanti dalle elaborazioni di un grande volume di dati, sono oggi le rappresentazioni visive più comuni delle conseguenze del disboscamento, dell’allevamento intensivo, delle monocolture, dell’industrializzazione massiva, dell’inquinamento dei terreni e delle acque, e in definitiva del cambiamento climatico. L’intervento suggerisce di fare attenzione agli unici dettagli figurativi di questo paesaggio astratto: gli indicatori di Google Maps, che individuano solo allevamenti, fabbriche, cereali, pompe gas, turismo gastronomico.
Lo storico dell’arte T.J. Demos, riflettendo sull’uso della fotografia e delle immagini oggi, si chiede:

Come possiamo convertire in immagine e narrazione i disastri che si muovono lentamente e si sviluppano sul lungo tempo? Come possiamo trasformare queste lunghe emergenze in storie abbastanza drammatiche da suscitare il sentimento pubblico?
Il termine Antropocene deriva dal greco “anthropos,” che significa “uomo” o “essere umano,” indicando, in un modo che possiamo definire semplicistico, che sono tutte le attività umane le responsabili di questa nuova epoca geologica. Tuttavia, le attività rappresentate da queste immagini non sono propriamente “umane” nel senso generale, ma sono principalmente quelle dell’industria. La retorica dell’Antropocene dunque spesso universalizza la responsabilità, permettendo al complesso statale e corporativo di evitare di essere ritenuto responsabile per i diversi impatti del cambiamento climatico. 

Ci interroghiamo quindi su come funzioni questo meccanismo di disconoscenza, proponendo  due  immagini satellitari del nostro territorio, ma suggerendo una possibilità di interazione tramite specifici segnaposti, rivisitati in modo critico, per evidenziare l’impatto dei principali autori dell’immagine proposta. 

3. Public art e comunità: come il gioco può sovvertire lo spazio
La ricerca, tramite il gioco, di realtà parallele

Il terzo intervento è stato affidato all’artista messicana Tiz Creel che, proponendo tre diversi giochi murali, intende attivare lo spazio pubblico stimolando alla creazione di nuovi immaginari e realtà parallele. Partendo da elementi tradizionali della nostra cultura visiva legata al gioco, l’artista propone una loro trasformazione e sovversione, rivisitandoli con immagini iconiche della città di Bologna. La vita è come un gioco dell’oca, c’è un momento per lanciare e uno per raccogliere, il tempo diventa un’illusione e la finzione crea di fatto una nuova realtà. 

Per Creel chiunque può giocare in qualsiasi momento. L’intento è proprio quello di creare una comunità utopica che, tramite la trasformazione del gioco, si possa riappropriare dello spazio – e se ci prendessimo del tempo per guardarci l’un l’altro/a, stare insieme, fare comunità? 
Il gioco è, infatti, una delle caratteristiche di tutto il lavoro di Tiz Creel. L’artista lo considera come fondamento dell’apprendimento, della creatività, della scoperta, dell’espressione di sé e della risoluzione costruttiva dei problemi. Giocare non riguarda solo il raggiungimento di un obiettivo specifico, ma anche il godersi il processo e imparare da esso. Platone stesso definiva il gioco come una metafora della vita degli individui, e Aristotele lo considerava come connesso alla virtù, essendo esso libero, autosufficiente e non costituito da una determinata necessità, come avviene invece per il lavoro.
Il gioco, secondo Creel, ci aiuta a perseguire un interesse più elevato nelle cose che ci circondano: quando giochiamo, ci impegniamo pienamente con la vita e i suoi contenuti per scoprire le verità più profonde nelle cose ordinarie.


Tutti e tre gli interventi con le molteplici interazioni avute sono state costantemente osservate, documentate e andranno a comporre una pubblicazione che verrà presentata alla fine del progetto e che racconterà il dialogo ottenuto, con tutte le sue sfaccettature. 

Crediti fotografici: Adrian Lungu / www.adrianlungu.it