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Puoi figurarti di nuovo la scena? Puoi immaginarmi stremato e sull’orlo del pianto? Dinanzi a me si apre il balcone della cucina, faccio qualche passo, la brezza è piacevole, chiudo gli occhi per un secondo, formulo qualche pensiero. La sopravvivenza è una categoria inconscia, per un attimo dimentico la lotta. Riapro gli occhi: il volto morente di una donna. Nel palazzo di fronte le finestre sono spalancate, posso scorgere l’interno di una stanza, un letto, un comodino ingombro di medicine, una vecchia accasciata, gli occhi semichiusi, la bocca che si muove a scatti, quando dorme è come morta. Non c’è mai nessuno che la vegli e che le tenga la mano. Muore lì ogni giorno la donna, il vestito color glicine, la coperta sforacchiata, che sembra una cerata. Muore lì ogni giorno il corpo, il tempo agisce come un rostro, poche membra a scuotersi in un trapasso che dura troppo.
L’essere umano è impotente, la bellezza asettica dell’abbandono si manifesta nell’istante più feroce. Ne sono colpito, mastico l’odio per la verità reiterata in ogni atomo dell’universo. Com’è possibile continuare a illudersi? Volgere lo sguardo, camminare per la propria strada…quanta forza ci vuole per abbracciare una morale qualsiasi… Chiedo notizie a lei, risponde mugugnando, non ci bada, non sa chi sia quella donna, lei si ammanta della pudicizia ipocrita, vuole rimuovere la contraddizione. Continuo a scrutare la vecchia, la sua incoscienza è languida, ha la postura del defunto, la pelle ha il colore del cuoio. Di cosa sta morendo? Non lo so. Ma sta veramente morendo? Lo do per scontato. Avverto la pressione del pianto.
E dunque? Cado all’indietro, sprofondo nel divano, le lacrime mi inondano il volto. In un istante mi si squarcia il cuore, ricordo il padre e la madre, lamento i dolori dell’esistenza, la banalità dell’essere, non sono speciale, nulla di quello che ho vissuto è speciale, non posso arrogarmi diritti neanche in nome della sofferenza. Non vi è evoluzione, progressione, redenzione. Una donna sta morendo a pochi metri da me, e da qualche parte ci sarà un figlio a piangerla, un amante a ricordarla. Oppure la solitudine, l’oblio, persino una fossa comune. Che abbia vissuto una vita insignificante o un’esistenza particolare non conta. Sono stato al capezzale di persone spacciate. Ho creduto che ci fosse qualche significato rituale, il simbolismo di un passaggio obbligato, il vettore della progressione a donare un senso alla loro fine. Ora vedo su un’estranea la stessa evidenza biologica: la morte. Non c’è senso alcuno in questo mutamento cellulare, come non c’è gnosi nell’esperienza del dolore. Si tratta solo di stimoli a cui reagisce il corpo, di modificazioni dei tessuti, e ancor più di sofferenza dell’anima, che null’altro sono se non impulsi elettrici, saliscendi di sostanze del nostro cervello che è pronto a travisare completamente la sfera delle emozioni.
E a cosa serve allora amare o odiare, se, come quella vecchia, tutti noi siamo condannati a morire? Magari osservati da un estraneo, mentre si sbriciola l’edificio dei ricordi portandosi dietro l’illusione di aver dato al nostro viaggio una forma coesa. Invece si è trattato solo di un attraversamento di neuroni, uno scontrarsi di atomi, un pretesto della materia per rimescolare la propria energia.

Giovanni Bitetto, Scavare, Italo Svevo, 2019, pp.162-164.

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Una grande porta di legno massiccio con una cornice di mattoni e due piccoli fori ad altezza occhi si pone davanti allo spettatore. Guardandovi attraverso si scorge una fessura nel muro oltre la quale vi è il corpo nudo di una donna, con le gambe divaricate e il viso nascosto, stesa su un letto di ramoscelli.
Con la mano sinistra regge una lampada ad olio, dietro di lei un paesaggio naturale con una piccola cascata.
Come un intruso, un voyeur, l’osservatore è costretto a questa unica modalità di fruizione: guardare, sbirciare furtivamente e immobili.


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