CONVERSAZIONE DI IRENE ADORNI CON SARA SASSANELLI

Sara Sassanelli (they/them)(1) sono curatric* all’Institute of Contemporary Arts (ICA) di Londra, e hanno precedentemente lavorato a Tate Modern, Royal Academy of Arts e Goldsmiths College of London. Sono interessat* alle intersezioni tra coreografia, performance e suono e il loro lavoro include collaborazioni con artist* e curator* in club e gallerie. La loro pratica si concentra sul lavoro di artist* che sperimentano in modo unico attorno a questioni come il desiderio, le nuove socialità e costruzioni del mondo, la scrittura sperimentale e le pratiche coreografiche. I loro progetti recenti a ICA includono The Tender Interval: Studies in Sound and Motion, Females: A Close Reading (Andrea Long Chu) con Sita Balani, Paul B. Preciado in conversazione con Jack Halberstam, e un takeover di tutta la notte del collettivo queer club INFERNO. 

Irene Adorni l’ha incontrat* per parlare della loro ricerca e dei loro recenti progetti. 

Irene: Ciao Sara, grazie mille innanzitutto! Sono molto contenta di poterti intervistare, trovo la tua ricerca e pratica curatoriale molto interessanti e vicine ad alcune tematiche che anche io affronto con la mia pratica artistica. Ho infatti molto a cuore le questioni del movimento del corpo nello spazio, e soprattutto del movimento come co-respirazione e co-vibrazione collettiva. Come sostiene Bifo, la congiunzione bioritmica di organismi coscienti e sensibili è una relazione vibrante: attraverso di essa, gli organismi individuali cercano un ritmo comune, un terreno emotivo comune di comprensione(2). Credo che la co-respirazione – breathing together – e il vibrare insieme siano un modo per immaginare nuove realtà che siano in qualche modo opposte alle dinamiche individualiste e di competizione tipicamente neoliberali.

Un’espressione della potenza del breathing together è dunque il rave e ciò che si crea nel contesto del clubbing, che può essere visto come pratica collettiva e rituale. È proprio all’interno di questo contesto che cadono tutte quelle norme sociali imposte e si apre lo spazio per la possibilità di immaginazione di scenari possibili.

move close, promotion images, Origami Clone.

Ti vorrei dunque chiedere innanzitutto come è nato il tuo interesse verso la performance art e la coreografia inserite in un contesto di musica elettronica e clubbing, e quindi nello specifico se mi puoi parlare dei tuoi progetti move close e inner u(3). Mi sembra molto interessante questa unione e soprattutto il fatto che le performance estemporanee non seguissero una dichiarata line-up all’interno della serata, ma che in questa unione fluida gli elementi visivi e performativi si succedessero come degli happenings all’interno del club. Come sei dunque arrivata all’ideazione di due progetti del genere?

Sara: Inner u esisteva già come serata, e ho iniziato a collaborare con i fondatori che mi erano stati presentati attraverso amici comuni che si esibivano durante le serate – quindi tutto è iniziato in modo molto semplice e non ero sicur* di cosa sarebbe diventato. Ero interessat* a presentare le pratiche coreografiche sperimentali e la performance in modo più ampio, oltre le restrizioni date da imposizioni tematiche. Ho riflettuto sul fatto che contestualizzare la performance attraverso modalità diverse potesse offrire qualcos’altro, qualcosa di più collettivo. La temporalità, il contesto e il pubblico sono diventati per me più interessanti dal punto di vista curatoriale. Non perché penso che la curatela tematica non sia valida; volevo solo usare la temporalità come materiale. Ho iniziato invitando gli artisti senza dare molte indicazioni in termini di programmazione o partecipazione. L’invito consisteva nel chiedere loro di portare qualcosa che volevano sperimentare, e la presentazione del progetto riguardava solo il contesto e il tipo di pubblico che lo spazio offriva. Da un lato, curare un evento per il club ha una immediatezza che non sentivo di poter raggiungere nelle istituzioni in cui mi trovavo all’epoca. Ha rimosso infatti alcune delle modalità di presentazione troppo fredde o severe che spesso si incontrano nei contesti delle gallerie e ha permesso qualcosa che ho percepito come un’azione più collettiva dell’essere semplicemente presenti e interessati. Le dinamiche tra spettatore e lavoro, nel contesto del club, erano sfocate o almeno erano, in qualche modo, sfasate. Con move close ho collaborato con gli artisti Es Morgan e Joseph Morgan Schofield, che sono arrivati circa un anno e mezzo dopo. Move close riguardava la sperimentazione delle intersezioni tra club e performance come spazi per l’elaborazione, per una sorta di meditazione e per creare comunità; trattava anche della performance come una sorta di interruzione, quasi come un reset. Avevamo circa quattro performance a serata, dunque circa una performance all’ora, e dava questo senso di ritmo in cui ogni performance avrebbe cambiato l’andamento della serata in base alla sua atmosfera, vibrazione e tono.  

inner u, lowkey performance, Somerset House Studios, Anne Tetzlaff.

I: Con il tuo progetto lowkey(4) presenti il movimento nello spazio come concetto di “inbetweenness” attraverso la performance e la danza. Trovo molto interessante questo focus sul movimento come elemento per indicare spazialmente la inbetweenness e quindi la non appartenenza a un punto A o a un punto B. Penso a un testo di Brian Massumi in cui riflette su posizionalità e movimento. Sostiene che la formazione del soggetto secondo la struttura dominante è spesso pensata in termini di “codifica”, cioè di posizionamento su una griglia. Questa griglia è un quadro oppositivo di significati culturalmente costruiti: maschio contro femmina, nero contro bianco, gay contro etero, e così via(5).

La fluidità del movimento e l’essere definiti non dalla posizione, ma dal continuo movimento tra i diversi punti, è un tema che si ritrova molto nel contesto del clubbing. Leggendo il tuo statement per il progetto lowkey(6), mi ha colpita molto la frase ‘Vogliamo esistere come persone che si muovono, in un modo semplice’, dunque la centralità del movimento come quasi definizione dell’esistenza. Mi puoi parlare di questo e dunque di come hai suggerito questa correlazione tra il movimento, la fluidità e inbetweeness nei tuoi progetti?

S: Il mio interesse per la lowkeyness [ low key: intimo, semplice, senza pretese] o inbetweeness [ in between: in mezzo, tra] nasce da ciò che percepisco quando ascolto la musica elettronica, specialmente nel contesto del club. Più precisamente, mi riferisco all’esperienza corporea del suono del basso e la sua relazione con il sistema nervoso. Il progetto lowkey per me è stato un processo di lavoro organizzato valorizzando il tempo libero, il tempo di svago e il tempo tra amici. Quindi, poiché il progetto veniva sviluppato con due miei amici molto stretti ( gli artisti Eve Stainton e Michael Kitchin), parte del materiale è stato l’intimità che abbiamo veicolato e le relazioni che erano inevitabilmente incorporate nella sua struttura. Così, il lavoro per me è stato costruito in questo modo permeabile e solvibile, aveva una partitura molto libera e non aveva elementi sonori predeterminati. La struttura della performance rifletteva molto il processo e la pratica di lowkey, che poi è diventata parte stessa del pezzo, è iniziata in una residenza in una casa per residenze. Mettere al centro il tempo di svago come esperienza nel club è stato ciò che ci ha portato ad invitare altri artisti e danzatori ad unirsi per diverse iterazioni; per me era più una pratica di scambio intimo e lowkey ha offerto uno spazio per relazionarsi attraverso il movimento.  

Inferno, Institute of Contemporary Arts, Anne Tetzlaff.

I: Nel 2020 hai curato il take over di INFERNO(7), un enorme queer techno rave, al Teatro, Bar e Cinema di ICA con un programma di tutta la notte di musica, porno queer e performance art.

In questo caso hai svolto l’operazione inversa, ovvero hai preso gli elementi del clubbing e del rave e, da una loro situazione originaria, cioè all’interno del club, li hai portati all’interno di uno spazio istituzionale. Questo evento ricordo mi aveva reso entusiasta, tanto da esclamare un sentito ‘finalmente!’ perché spesso, in contesti istituzionali, si parla di queerness, di superamento di limiti socialmente imposti, di fluidità, di ritualità della danza e di pratiche collettive, andando però a prendere questi elementi all’interno del contesto del clubbing e riportandoli nello spazio espositivo, quasi denaturandoli. In alcuni casi questa operazione è fatta riportando solo l’estetica del rave, ma andando a distruggere le effettive dinamiche relazionali. Con INFERNO tu invece non hai voluto denaturarle e dunque hai fatto un azzardo: hai veramente portato il rave all’interno dello spazio istituzionale. Puoi parlarmi di questa operazione, del perché hai deciso di farlo e come si è sviluppato l’evento?

S: INFERNO è successo perché ho scoperto che potevo ottenere la licenza fino alle 6 del mattino all’ICA! Questo ha sbloccato un certo potenziale riguardo alle dinamiche relazionali che menzioni nella tua domanda, dato che avevo dei dubbi simili riguardo all’estetica del club che veniva estratta e collocata in contesti istituzionali. Ero – e sono ancora – desideros* di collaborare con collettivi interessati a mettere l’istituzione ‘attraverso qualcosa’. Quello che voglio fare con questa rassegna è incoraggiare collaborazioni con persone e collettivi radicati in svariate tradizioni rave. La serie ha lo scopo di presentare il rave come uno spazio per il self-care emotivo, uno spazio per il piacere e per l’attualizzazione del desiderio, dove le persone possono essere viste nel modo in cui vogliono essere viste. INFERNO, gestito dall’incredibile persona e artista Lewis G. Burton, non poteva essere un modo migliore per iniziare. INFERNO ospita mensilmente dei rave techno, ma è anche una comunità e una piattaforma che promuove e sostiene gli artist*. Penso che questo particolare evento abbia creato, per coloro che hanno partecipato, uno spazio per poter accedere a qualsiasi cosa sia scaturita in quel momento. La sregolatezza in questo contesto era importante per me, e spero che un senso di ciò sia arrivato, e che le persone abbiano sperimentato una viscosità del tempo, attraverso l’atto di ballare, muoversi e sentire collettivamente. Sono più interessat* a ciò che la rassegna potrebbe offrire, produrre o realizzare, piuttosto che a cosa potrebbe compromette in termini di critica istituzionale. Penso molto alla temporalità nel rave o al ‘tempo del rave’, ai diversi livelli di euforia, alle connessioni attraverso la danza, al movimento collettivo con il ritmo, al fatto che sia un tempo libero e celebrativo ma anche, per molti, un tempo di elaborazione, e il risultato sono assemblaggi di diversi modi di essere e un modo diverso di vivere. Forse è anche semplicemente una modalità di sopravvivenza, quello che voglio dire è che libera una serie di scenari importanti per sopravvivere. Penso che INFERNO sia un buon esempio di questo, è un posto in cui le persone queer, trans e che non si conformano al genere possono esistere, si tratta anche di essere visti, riconosciuti e affermati come si vuole.

Inferno, Institute of Contemporary Arts, Anne Tetzlaff.

I: Come è stato accolto un evento come INFERNO all’interno di ICA? Il pubblico era lo stesso che sarebbe comunque andato ad una serata di INFERNO o hai notato un ampliamento dell’audience con chi magari frequentava già ICA come spazio espositivo più istituzionale?

S: INFERNO ha una comunità molto unita e mi è sembrato che tanti siano effettivamente venuti all’ICA e che la loro presenza sia stata importante. La durata di 8 ore, dalle 22 alle 6 del mattino, ha avuto un impatto sull’atmosfera, sul successo e sull’esperienza, e ha permesso alle diverse dinamiche che si hanno in un club di accadere davvero, come sudore, calore, amicizia, intimità e sesso, diversi livelli di ebbrezza, stanchezza ed euforia. Tuttavia, attraverso l’inclusione del programma cinematografico e la performance in teatro, si è riconosciuto lo spazio in cui ci trovavamo e se ne è fatto uso. Avere un programma di porno queer curato da UNCENSORED ha anche fornito una specificità all’uso del Cinema. Si trattava di fornire uno spazio sex-positive per coloro che rifiutano la distinzione tra pornografia e arte, che criticano la censura e che vogliono celebrare il porno attraverso una lente queer femminista che accoglie una discussione sulla politica del piacere. Penso che la combinazione di questi elementi abbia evitato che sembrasse di essere stato sradicato dal suo contesto, o una parodia, penso che gli abbia permesso invece di diventare una cosa a sé. 

Note:

(1) uso di they, them, themselves, themselves e their come pronomi di coloro che si identificano come non-binary, ovvero di chi non si riconosce nelle tradizionali identità di genere binaria.

(2) Breathing, Chaos and Poetry, Franco Bifo Berardi, Semiotext (e) 2018. pp. 111-112

(3) inner u è un party londinese gestito da Ben Bishop, Will Coldwell e Sara Sassanelli, radicato nell’idea dello spazio del club come luogo di libera espressione. Mescola un programma di musica elettronica, dalla techno alla bass, con performance contemporanee e arti visive radicate nella tradizione rave. move close è un party presso il Vogue Fabrics Dalston curato da Es Morgan, Sara Sassanelli e Joseph Morgan Schofield, in cui diverse performance avvengono senza preavviso per tutta la notte, con un focus sulla relazione tra la musica elettronica sperimentale attuale e la dance/live art.

(4) lowkey coinvolge The Uncollective (Eve Stainton & Michael Kitchin) e Sara Sassanelli che lavorano per eliminare il giudizio all’interno di uno spazio performativo attraverso i loro corpi danzanti. Il progetto vuole abbassare la posta in gioco di ciò che uno spazio performativo potrebbe normalmente contenere: gli Uncollective usano Sara per abbassare la posta in gioco della loro pratica di danza, mentre Sara usa gli Uncollective per rendere accettabile l’essere guardati mentre danzano.

(5)  Parables for the Virtual: Movement, Affect, Sensation, Brian Massumi, Durham: Duke University Press, 2002, pp. 2-3

(6) Vogliamo usare lo spazio per ballare

Vogliamo usare lo spazio per esplorare lo stare insieme e lo stare da soli

Vogliamo usare lo spazio per mixare/mettere in loop la musica e creare paesaggi sonori che ci ispirino a muoverci

Vogliamo esistere come persone che si muovono, in un modo semplice.

Vogliamo abbassare la posta in gioco di come potrebbe essere/apparire una futura performance di questa esplorazione

Forse c’è un po’ di sindrome dell’impostore in questo

(7) Rave techno queer curato dal performance artist e DJ Lewis G. Burton e dal produttore e musicista Sebastian Bartz (Venice Calypso), con live, performances e proiezioni per tutta la serata di pornografia queer presentate dalle curatrici Lidia Ravviso e Olivia Carr-Archer di UNCENSORED Festival.