
CONVERSAZIONE DI ARIANNA PASINI CON NICOLA SAMORÌ
Esattamente due anni fa mi stavo laureando in Arti Visive all’Università di Bologna. La mia tesi, intitolata La Romagna dopo la fine dell’arte, ha preso vita quando mi sono imbattuta in un saggio di A. C. Danto, Dopo la fine dell’arte (1); quelle pagine, così affascinanti e suggestive, hanno cambiato la mia percezione sul contemporaneo. Secondo il critico e filosofo americano c’è una data che segna la fine della cornice narrativa dell’arte (2), il 1964, che coincide con la mostra delle sculture Brillo Box di Andy Warhol alla Stable Gallery di Manhattan. Visto il coinvolgimento forte verso l’arte della mia terra, mi sono chiesta se la Romagna, quindi i suoi artisti, avessero in qualche modo avvertito questo mutamento. Di seguito riporto l’intervista a Nicola Samorì (3), realizzata il giorno martedì 5 febbraio 2019 presso il suo studio di Bagnacavallo.
Arianna Pasini: La mia tesi si intitola La Romagna dopo la fine dell’arte. Partendo dalle riflessioni di Hans Belting e A. C. Danto riguardo il confine dell’arte, ho deciso di delineare un progetto riguardo l’arte romagnola dopo il 1964. Qual è la sua opinione riguardo la fine dell’arte?
Nicola Samorì: Non credo che l’arte sia finita. Che cosa si intende per fine dell’arte? Può essere la fine di un approccio all’arte, ma affermare che l’arte è finita, sarebbe come dire che le nostre abitudini e i nostri rituali, che compiamo da migliaia di anni, non esistono più. Non mi interessano coloro che si approcciano in maniera categorica e risolutiva a dei sistemi così vasti e complessi e non interamente comprensibili. Fine dell’arte: che cos’è l’arte, quando è iniziata, quando è finita, qual è il confine? E’ una categoria talmente ampia da portarmi a discutere con me stesso ogni giorno. Non ho idea di quando sia nata questa relazione con la parola arte, e non condivido che qualcuno possa definirla finita. Quante volte è morta nel tempo? Probabilmente, secondo i criteri che mutano nelle diverse epoche, è morta moltissime volte. La differenza sostanziale è data dal fatto che questi mutamenti non fossero registrati; oggi vengono registrati immediatamente. Danto, dopo aver osservato le Brillo Box di Warhol nella mostra del 1964, ne sarà rimasto sicuramente colpito e sconcertato, ma ha ostinatamente cercato di far quadrare i conti, i suoi conti. Ovviamente credo che le sue osservazioni siano molto lucide, e la sua intuizione sia stata interessante. È innegabile che vi sia stata una trasformazione, ma non credo sia una tesi integralmente condivisibile. Dov’è morta l’arte, in America? Nel rapporto Europa-America? E’ morta nello stesso momento anche presso gli aborigeni o in Paesi che non hanno minimamente seguito la Pop Art? Il discorso è estremamente malleabile, fluttuante, e mi riporta ad una delle cose che mi innervosiscono di più, espresse da pittori e curatori del mio tempo: lo sguardo a raggio corto. Alcuni sostengono che stiamo assistendo a una catastrofe universale, che stavamo aspettando da qualche migliaio di anni. Io non credo sia proprio così. Non credo che stia accadendo niente di speciale nell’arte oggi, o almeno non più di quanto accadesse all’epoca di Tiepolo a Venezia. Vi è sicuramente un profluvio di parole maggiore, si è costruito un indotto mediatico che ci permette di registrare con grande accuratezza ciò che accade, ma i problemi che ci poniamo non sono totalmente differenti rispetto a quelli di un buon autore europeo del XVI secolo. Non è completamente diverso, nonostante abbiamo allargato, alle volte esageratamente, il perimetro dell’arte.

fig. 1 Nicola Samorì, Sacrificio, tecnica mista su tavola, 1999, cm. 122×243, collezione privata
Mi hai chiesto che cosa penso sulla fine o morte dell’arte, ma io in realtà non so risponderti. Ciò di cui mi occupo è solo un brandello infinitesimale dell’espressione; io credo di conoscere discretamente, nonostante sia soggetto a dubbi continui, le pratiche della pittura, scultura e disegno.
AP: Nascere in Emilia Romagna per un artista è un valore aggiunto oppure un ostacolo? La regione ha incentivato e incoraggiato il suo percorso artistico?
NS: Credo di esser stato fortunato a nascere qui in Romagna; posso affermarlo col senno di poi, considerando le molte altre realtà italiane. Sono un convinto sostenitore di questa regione e dell’energia artistica che ha dimostrato e che sta mostrando ancora oggi. Sono cresciuto in una regione che ha ospitato moltissime eccellenze a livello internazionale; basti pensare ai pittori Alessandro Pessoli e Margherita Manzelli, della generazione precedente alla mia, o alla Societas Raffaello Sanzio di Cesena per il teatro. Vi sono anche figure di giovani artisti altrettanto interessanti, come Luca Monterastelli e Riccardo Baruzzi. La Romagna è un luogo che non demotiva e non demoralizza per quanto riguarda le arti. Non è un caso che un gigante come Moreni sia transitato in questo luogo come punto di appoggio per raggiungere i suoi impressionanti traguardi. Forse sarebbe stato più semplice se fossi nato a New York o a Berlino. Non credo, però, cambi molto essere nato in provincia di Ravenna o a Milano. L’Italia è una grande provincia, come diceva Giulio Guberti. In Romagna vi sono forse una mancanza di risorse, o disorganizzazione, ma non mancano il talento artistico e il desiderio. Non credo sia quindi un luogo sbagliato dove iniziare un percorso artistico. La regione non mi ha né aiutato, né ostacolato. Le trasformazioni e soddisfazioni più importanti sono avvenute in altri luoghi, ma mi sono sempre sentito a mio agio qui, a partire dalla formazione al Liceo Artistico di Ravenna. In ogni caso, credo che uscire dall’Italia abbia giovato al mio lavoro; all’estero, non avendo vissuto la mia fase di crescita e i difetti formativi, restano impressionati dalla mia opera. Qua non accade perché conoscono bene il mio passato, mi hanno seguito sin dalle fasi adolescenziali. Credo sia sempre più efficace, per gli artisti, presentarsi in un luogo come frutto di una autogenerazione. A Berlino, infatti, sono arrivato con il mio bagaglio di abilità completo e maturo. Qui in Romagna non esistono molti enti o strutture per promuovere gli artisti: infatti, la maggior parte degli eventi legati all’arte sono autoprodotti. Basti pensare alle iniziative complesse e bellissime realizzate da Massimiliano Fabbri con Selvatico. Forse l’aspetto più debole della nostra regione, ricca di artisti e collezionisti moderni e contemporanei, è la totale mancanza di gallerie private di rilievo.
AP: Ha mai sentito la mancanza di appartenere a un collettivo di artisti o ad un gruppo di lavoro?
NS: Il percorso individuale è per me una dimensione obbligata. Non riesco ad essere collaborativo. Ho provato più volte a fare delle esperienze a due teste, quattro mani, ma non ne sono mai stato soddisfatto. Non mi fido degli altri e non mi affido quindi al loro operato. L’unico collaboratore che posso accettare, come ripeto spesso, è un robot, piuttosto che un insetto. Assumermi la responsabilità del lavoro integralmente, dall’inizio alla fine, sino al suo eventuale smantellamento o dilapidamento, fa parte della dimensione, quasi rituale, del mio processo creativo. Il mio lavoro guadagna e perde forma continuamente, che procede lenta e brusca, brusca e rallentata; queste dinamiche devono essere consumate sul mio tempo e la mia azione diretta. Non mi è mancato appartenere a un gruppo, perché mi attrae moltissimo l’idea del singolo, anche in chiave romantica. Sono un inguaribile passatista, legato alla dimensione accentratrice dell’artista come costruttore della propria identità. Ciò che mi eccita di più visivamente è il risultato del singolo artista. Non dico di non riconoscere la meraviglia e l’orchestrazione delle tante mani dell’arte anonima nelle civiltà antiche. Trovo, però, che sia fondamentale, quando le mani sono tante, avere una regia molto forte. Io credo nell’artista come primo artigiano. Infatti, a capo delle più grandi e valide botteghe, vi erano personalità come quelle di Giotto, Rubens, Rembrandt, Tiepolo. Queste grandi macchine di lavoro erano efficienti solo grazie alla magistrale conduzione degli artisti, che avevano le abilità maggiori e prendevano le decisioni più importanti. Situazione opposta rispetto all’attuale mondo dell’arte. Oggi le maestranze sono quasi sempre più competenti degli artisti. E’ un punto critico della contemporaneità. L’artista non è più il primo esecutore o scopritore delle dinamiche che appartengono alla trasformazione della materia. Il risultato è una evidente mancanza, che rischia di scivolare immediatamente nel prevedibile.
AP: Una cosa che mi ha particolarmente colpita, essendo musicista, è stata la sua collaborazione con diversi gruppi musicali. Ricordo, ad esempio, la copertina dell’album Total Depravity dei The Veils (4), con la sua opera Maddalena [fig.2], trovato in un negozio di dischi a Berlino circa tre anni fa.
NS: Arrivano richieste continuamente, l’ultima due giorni fa; attualmente accetto solo i progetti, sorvegliati da un buon designer, che promettono un lavoro formalmente impeccabile. Per quanto riguarda i The Veils, li avevo già ascoltati e mi interessavano, è stato bello poter collaborare con loro. Purtroppo non posso dire lo stesso dei Behemoth, nonostante abbiano eseguito un lavoro ineccepibile dal punto di vista grafico-formale; l’idea dell’avvicinamento del mio lavoro ad un mood satanista e death metal non è ciò che voglio trasmettere. Capisco che le mie opere possano prestarsi a questa interpretazione e che una nicchia di persone le percepisca proprio sotto questa luce, ma se questo aspetto dovesse diventare preponderante, ne risulterebbe un fallimento di comunicazione. Per questo voglio ridurre al minimo queste concessioni.

fig. 2 Maddalena, olio su tavola, 2010, cm. 70×50, collezione Coppola
Trovo che ci sia una differenza sostanziale tra la musica e la pittura. Quando parliamo della musica, sappiamo che è necessario comunicare ad un audience molto ampia. Un musicista, come un regista, se non macina migliaia, milioni, di forme di curiosità, di occhi e orecchie attente, non può avere un futuro. Nell’arte, invece, vedo che la moneta corrente è quella di un ascetismo respingente, che non può diventare legge. Io non mi ritengo soddisfatto di comunicare solo con gli addetti al lavoro, con un gruppo ristretto di persone, con questo mi ricollego anche alle mie affermazioni poste prima riguardo Danto. Non mi piace che una persona, o un piccolo gruppo, che si autoproclama, possa decidere ciò che funziona o meno. Un pittore oggi, purtroppo, può sopravvivere e arricchirsi anche solo con quindici, venti estimatori; bastano un curatore, un paio di galleristi e una decina di collezionisti per diventare artisti di successo. Si crea una sorta di bolla. L’artista contemporaneo, oggi, vuole vivere in una forma di purezza, non vuole relazionarsi con l’occhio “stupido” e “volgare” del pubblico che ricerca qualcosa di noto e tranquillizzante. Credo che questo ci abbia fatto dimenticare una storia secolare che si muoveva in un’altra direzione, e ci abbia portati all’autoreferenzialità. Bisogna, secondo me, anche nell’arte, smettere di proteggersi nelle gallerie, e cominciare a porsi il problema dell’altro, del pubblico eterogeneo, e soprattutto esporsi alle critiche. Io trovo che un antidoto possa essere la collaborazione con altre espressioni artistiche. Mi piace, infatti, mettermi in gioco e collaborare con il teatro, la musica, la letteratura e il cinema. Ho fatto un libro con Antonio Moresco, autore che amo molto, e ne sono davvero soddisfatto. Ho anche collaborato, in piccola parte, al film Suspiria di Guadagnino. L’idea che il mio lavoro possa arrivare a tanti, in un circuito che non è prettamente artistico, quindi non solo a un piccolo gruppo di curatori, critici o collezionisti, mi stimola molto.
AP: Com’è il suo rapporto con il mondo virtuale? Gestisce personalmenti i profili social Instagram e Facebook?
NS: Non gestisco nulla, ho solo occupato il suolo per evitare che lo prendesse qualcun altro, come mi è successo qualche tempo fa su Facebook. Mi sono progressivamente ritirato. Da una parte è una questione di indole; non mi piace, comunque, condividere i miei fatti personali con gli altri. Se sono in un determinato luogo e sto facendo qualcosa di bello, sono così egoista che voglio tenerlo per me. Il principio di condivisione, nel mio caso, ancora una volta, è ridotto al minimo. D’altra parte è falso quello che sto dicendo, perché se fosse solamente così, non produrrei immagini continuamente. Trovo piuttosto imbarazzante cercare di racimolare attenzioni attraverso l’utilizzo della propria immagine e dei likes. Nutro un profondo disagio verso queste pratiche; ecco perché non riesco a mettermi alla berlina di tutti. Non voglio neanche essere condizionato nelle mie scelte da un gruppo più o meno grande, attraverso il loro indice di gradimento virtuale. Durante i lavori non sopporto interferenze, di nessun tipo. Ecco perché neanche la mia compagna mi vede lavorare; non c’è nessuno, se non figure completamente trasparenti di tipo tecnico-meccanico. Se ti sei assunto questo impegno, questa responsabilità, di costruire qualcosa, di dire la tua su una storia così complessa, è inutile che elemosini consigli da altri. Devi essere pronto ad accettare feedback positivi e negativi, continuamente. Oggi le reazioni, anche se non vengono domandate, arrivano più veloci che mai. Mi piacciono questi strumenti, sono convinto che siano estremamente formativi e rivoluzionari. Ci permettono di rimescolare le carte. Ci fanno uscire da quella lettura unilaterale alla Danto, di cui parlavamo prima. Io credo che piattaforme come Instagram, se sfruttate in modo positivo, possano aiutarci ad andare oltre. Sono stanco della prevedibilità presente nei musei. Penso, ad esempio, a quella prevedibilità spiazzante e quasi imbarazzante che continuiamo a vedere nella maggioranza dei musei contemporanei europei, dove sappiamo già di trovare una sezione pop, una cinetica, due o tre elementi della transavanguardia e arte povera. Davvero non c’è altra arte? Secondo me Instagram è la chiave di volta. In questa piattaforma vi è di tutto, non solo l’arte considerata ufficiale. Non vi sono più regole preimpostate, diventate ormai dottrina, riguardo alle immagini; sembrano tornate libere. Fanno ciò per cui sono nate, quindi muovono sensazioni ottiche e mentali. Io devo ringraziare queste realtà virtuali, mi hanno aiutato a crescere. Se una cosa colpisce, rimbalza istantaneamente dall’altra parte del mondo. Sicuramente accadono anche episodi preoccupanti, che non sappiamo a cosa potranno portare nel futuro; mi riferisco, ad esempio, alle persone che simulano il tuo modo di lavorare nelle Filippine, senza avere il tuo background, perché rimasti colpiti da immagini trovate via social. Questo è sempre esistito nel passato, ma non con questa velocità; la rivoluzione c’è stata, quindi, nei mezzi comunicativi. Rivoluzione che ci porterà, probabilmente, a quello che eravamo prima.
Note:
(1) Arthur Coleman Danto, Dopo la fine dell’arte, traduzione italiana di After the End of Art. Contemporary Art and the Pale of History del 1997, Mondadori, Milano, 2008
(2) Cfr. Hans Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Giulio Einaudi, Torino, 1990
(3) Nicola Samorì è un artista italiano nato a Forlì nel 1977. Ha ricevuto prestigiosi premi quali Morandi (2002) e Michetti (2006), ha esposto in importanti mostre personali e collettive internazionali, come alla 54esima e 56esima Biennale di Venezia (2011, 2015). La prima mostra antologica in Italia, SFREGI, sarà visitabile dall’8 aprile al 5 luglio 2021, presso Palazzo Fava di Bologna.
(4) Total Depravity è il quinto album musicale del gruppo neozelandese The Veils, pubblicato il 25 agosto 2016 dalla Nettwerk Productions