
CONVERSAZIONE DI DARIA CASADIO CON MARCELLO GALVANI
Marcello Galvani (1975) vive e lavora a Massa Lombarda (RA). Si è avvicinato alla fotografia grazie agli insegnamenti di Guido Guidi al quale è rimasto legato come amico e collaboratore. Nel 2012 il Museo MAR di Ravenna gli ha dedicato una mostra personale curata da Silvia Loddo e nel 2017 ha esposto a Photo London. Ha pubblicato numerosi libri fotografici: Queste sei fotografie (Aedizioni, 2010), Di palo in frasca (ed. del Bradipo, 2015), La molla è un motore (ed. Quinlan, 2016), Eggs and Asparagus (Skinnerbooks, 2017), Meteo (Sete edizioni, 2020).
Le sue fotografie fanno parte delle collezioni permanenti del Museo MAR di Ravenna, del MAXXI di Roma, del Fotomuseum di Wintherthur (CH) e della Fondation A Stichting di Bruxelles.
Daria: L’Emilia-Romagna è una regione in cui la tradizione fotografica è molto sedimentata. Dagli anni Settanta i fotografi qui hanno iniziato a guardare in modo nuovo il paesaggio, avvicinandosi ad uno sguardo più riflessivo e silenzioso. Due figure fondamentali in questa storia sono Luigi Ghirri e Guido Guidi. In particolare Guidi, che ha sempre vissuto nella campagna di Cesena, è stato tra i primi in Italia ad occuparsi del paesaggio marginale della provincia, a lui si deve l’eredità di una certa cultura fotografica qui in Romagna e l’influenza su una nuova generazione di giovani autori (1). Mi sembra che nel raggio di pochi chilometri quadrati si sia quindi sviluppato un gusto, una tendenza fotografica molto ben definita che rivedo in fotografi come te, Luca Nostri, Cesare Fabbri, Francesco Neri…
Marcello: Ma non dimentichiamo le ragazze…Sabrina Ragucci, Francesca Gardini, Alessandra Dragoni, e tanti altri come Luca Gambi, Francesco Raffaelli… fare dei nomi rispetto alla scuola di Guido è complicato, perché in tanti sono passati di lì o l’hanno frequentato, poi qualcuno non ha continuato mentre altri hanno spinto di più. Quello di cui tu parli è una scuola attorno alla figura di Guido sicuramente, ma credo che in generale la Romagna sia una terra di fotografi e visionari. Non so, forse è per un particolare rapporto che si ha con l’orizzonte.
C’è un film su William Eggleston che s’intitola By the ways (2). Viene filmato un suo viaggio in Italia e a un certo punto lui è in un ristorante e c’è una signora che canta Romagna mia. Ho sempre trovato in questa scenetta una sorta di omaggio al contrario, dalla fotografia americana ad una tradizione romagnola. Senza dubbio con Guido si guardava molta fotografia americana, non c’era un pomeriggio senza Friedlander e le lezioni su Evans con le tapparelle abbassate erano come erotizzate, non scherzo. C’era una vera e propria morbosità… non so indubbiamente la connessione con quella cultura fotografica esiste.
D: Tu quando hai iniziato a fotografare?
M: Io ho iniziato durante l’Università quando frequentavo Chimica Farmaceutica, come diversivo per stare in giro. Poi mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, volevo fare pittura perchè ero molto attratto da un artista di Massa Lombarda, Umberto Folli, un pittore raffinatissimo. Qui, in Accademia, ho incontrato Guido, che mi ha fatto venire ancora più voglia di fotografare. Lui teneva un corso complementare di Fotografia e uscivo dalle sue lezioni folgorato. Facevamo storia della fotografia ma lui divagava molto, partiva sempre dalle immagini, sia di fotografi che di pittori, soprattutto rinascimentali. Lui portava avanti una vera e propria alfabetizzazione visiva, faceva grammatica dell’immagine. Si partiva sempre dalla lettura di ciò che vedevamo, dall’individuazione di quelle cosiddette “corsie preferenziali” che portano l’occhio in giro per il quadro a indicare piccoli dettagli e simboliche evidenze. Ho imparato a vedere cose che prima non vedevo e questo ha cambiato il mio modo di percepire le cose perchè vedevo di più. Mi è quasi da subito passata la voglia di dipingere perché volevo uscire a guardare con quegli occhi nuovi. Ho capito che la percezione può essere educata e ampliata. La tecnica poi l’ho imparata negli anni da autodidatta seguendo un pò gli altri.
D: Quindi per te è stato molto più importante studiare la storia dell’immagine piuttosto che apprendere una serie di tecniche…
M: Le regole tecniche della fotografia si apprendono in fretta e in realtà sono molto semplici. É la frequentazione delle immagini di altri che ti fa esplorare le possibilità del linguaggio. Con Guido abbiamo imparato questa specie di adorazione per il linguaggio fotografico in sé, che è un linguaggio visivo diverso da quello delle parole. É vero anche che con i miei amici fotografi si parla solo di macchine fotografiche, fotolaboratori e obiettivi…
D: Mi avevi parlato di un nuovo Rinascimento in riferimento a questa Scuola, giusto?
M: Sì, mi piace vederla così. Guido ci faceva vedere molta pittura del Quattro-Cinquecento, Piero Della Francesca, Beato Angelico e gli altri. Indubbiamente questo è legato al fatto che la fotografia ha ereditato quello che faceva la pittura prospettica. Infatti quando la fotografia si è diffusa, la pittura ha poi cambiato direzione e si è scardinata dalla prospettiva. In un qualche modo la sua scuola assomiglia a una bottega rinascimentale in cui, al posto dell’invenzione della prospettiva, si coltiva e affina una certa fiducia nel potere conoscitivo del mono-occhio fotografico. E come in una bottega si impara il mestiere con le sue regole e le sue peculiarità. Questo non è scontato perché c’è molta ignoranza rispetto alla fotografia. Spesso ho sentito dire che qua in Romagna tutti fanno la stessa cosa, “voi guidiani siete tutti uguali”, dicono. Certo come nel Rinascimento, in cui la pittura in prospettiva obbligava a certi canoni, tutte le Annunciazioni interponevano la colonna fra la Madonna e l’arcangelo ma ogni artista poi ha sviluppato un linguaggio personale, in relazione alla sua visione e alla sua poetica. É indubbio che a stare vicini ci si assomiglia. Il fruttivendolo Guerrino di Massa Lombarda dopo cinquant’anni di matrimonio era identico a sua moglie, stessa faccia, stessi gesti. Se si guarda un fosso in questa stagione, si può dire che è pieno di erbacce… in realtà la frequentazione assidua del fosso ti porta a distinguere e vedere le differenze fra gli stridoli, la piantaggine, la pimpinella o un tarassaco… qualcuna si mangia ed è buonissima, qualche altra no. Uguale per chi fa fotografie.
D: In cosa credi abbia influito di più questa lezione sul Rinascimento all’interno della tua pratica fotografica?
M: Mi sembra di aver preso su una certa pulizia dell’immagine, far fotografie chiare e precise, quasi come fossero esperimenti scientifici, in cui l’attenzione è tutto. Se si fotografa questa tazza la si fotografa in quanto tazza, questa tazza qui, ora. Ecco vedi ora questa è illuminata in un certo modo e prima non lo era. Ho adottato anch’io quello che si chiama “stile documentario”, cercando di rimanere su un crinale che si affaccia fra le cose per quello che sono ma aprendo alla possibilità di trascendere, di cogliere idee non verbali, non discorsive.
M: Questa fotografia di un palazzo con le finestre spalancate, mi ricordo, la utilizzai come immagine/pubblicità per una mostra a Bologna. Quando portai le cartoline in un bar e chiesi alla barista se potevo lasciarle sul bancone, lei incuriosita mi disse: “Cosa fate…Affittate?”.
D: Potrebbe esser preso come un gran complimento!
M: Per me lo era, assolutamente… Quello che si diceva di una fotografia travestita da documento.
D: Tu con che cosa preferisci scattare?
M: Io ho fotografato con tutte le macchine però ultimamente fotografo più spesso con il banco ottico. Anche il mio ultimo libro, Meteo e il precedente Eggs and Asparagus sono stati fatti usando solo la 8×10. Questo mezzo mi permette di concentrarmi molto di più sul processo, dandomi la possibilità di far più attenzione. Evans, prima di mettere la testa sotto il panno nero per guardare nel vetro smerigliato, diceva: “Ecco guarda, sto per scomparire”. Questo è un bel modo per togliersi di mezzo e darsi alla contemplazione, che è una gran cosa perché ti permette di uscire dal tuo pensiero e di stare unicamente nel momento presente.
D: Questo mi fa venire in mente un libro di Guido Guidi, La figura dell’orante (3), in cui paragona la figura dell’Orante a quella del fotografo, che con la sua macchina 8×10” alza le braccia e nasconde la testa dietro il panno nero per proteggersi dalla luce. Guidi rileva la somiglianza di questo gesto ad un antico rituale di preghiera propiziatoria.
M: Sì, Guido ha sempre sostenuto che la fotografia sia una specie di preghiera, un atto per omaggiare il reale. Anche Robert Adams dice che i pittori sono creatori, come Dio, mentre i fotografi sono solo dei santi. Non fotografo tanto per il risultato ma per prendermi cura di quello che ho davanti, provando a togliermi di mezzo. In qualche modo vorresti nasconderti dentro la macchina fotografica ma poi inevitabilmente, dalle fotografie viene fuori quello che sei. La fotografia va utilizzata per quella che è la sua natura, per quello che lei può fare. Cosa può fare davvero la fotografia? Farti vedere una tazza diversamente da come l’hai sempre vista. La macchina va usata così, per vedere come lei vede, tu devi trasformarti nella macchina e non il contrario. É lo stesso lavoro che fa il microscopio, migliora la visione.
D: Mi colpisce molto che da quello che dici sembra emergere da un lato una visione della fotografia estremamente meccanica, tecnica e scientifica, ma che dall’altro si arrivi ad ottenere immagini molto poetiche, sei d’accordo?
M: Mi sembra che ci sia molta poesia nella scienza e anche nella matematica… cosa c’è di più astratto? Non è poetico pensare, come dice Luigi Vallauri per esempio, che il raggio della gigante rossa Betelgeuse sia 1000 volte più grande di quello del Sole o che l’elettrone di un atomo di idrogeno in cui si ingrandisca ipoteticamente il nucleo a 1 m risulti a 5 km di distanza? I numeri, la geometria credo abbiano un gran potenziale poetico.
D: Di solito si pensa ad un tipo di poesia legata, all’opposto, all’evasione dalle regole, al rompere i limiti prestabiliti, mentre tu mi sembra che parli di un tipo di poesia che si raggiunge attraverso la disciplina.
M: Pensa anche a Glenn Gould. Lui è estremamente rigoroso e preciso, meccanicizza tutto, un metronomo. Sembra freddo ma il suo Bach, attraverso la matematica, riesce a trascendere, ti manda in trance più di un bell’orecchiabile Mozart.
D: Nel tuo libro Eggs and Asparagus, sono coinvolte molte persone vicine a te, anche emotivamente, come ti collochi alla luce della tua pratica davanti a questi ritratti?
M: A me interessa fotografare quello che ho vicino sia per comodità sia perché mi voglio occupare di ciò che mi riguarda: il posto dove abito, i miei amici, il mio cane. Forse è attaccamento.. non so… Guarda questa foto ad esempio. In famiglia abbiamo sempre avuto dei Bullmastiff. Mio padre, negli anni, li ha chiamati tutti Dersu, in omaggio a Kurosawa, quasi a voler fermare il tempo. Questo è Dersu VII. Sono stato tutto un pomeriggio con lui. C’era un bel sole e lui si è messo ad un certo punto proprio nell’ombra prima della luce. “Perfetto”, ho pensato, “vediamo se riesco a metterti a fuoco”. Tutti fanno la foto del proprio cane perché tengono a lui, vogliono fissarlo e farlo vedere ad altri. La sfida per me era farla col banco ottico… è miracoloso che gli occhi e le unghie siano venute perfettamente a fuoco e son sicuro che se la ingrandissi vedrei me di fianco al cavalletto riflesso nei suoi occhi. Franco Bertoni un giorno mi disse che avevo voluto citare la lepre di Durer, che sta in una posizione simile, ma a questo non avevo minimamente pensato. C’è anche quel panno lì che assomiglia alle sue rughe… Ecco direi che fotografare quello che conosci funziona un pò come un’autoanalisi, se vogliamo, il famoso “conosci te stesso”. Per questo amo molto la Guide di Eggleston. Da quel libro non emerge tanto com’è Memphis, quanto più chi è lui. Questa è la bella contraddizione rispetto a quello che ti dicevo prima… si fa di tutto per sparire dietro la macchina fotografica, ma non si fa che costruire un proprio autoritratto.
D: Come funziona per te la costruzione del libro?
M: Così come non faccio mai progetti, ma semplicemente esco di casa e lascio spazio all’incontro, anche nel costruire i libri cerco di accorgermi di come le fotografie possano dialogare fra loro, senza troppe forzature. Delle volte metti le fotografie in una scatola, poi le rimescoli sul tavolo e qualcuna capita vicino ad un altra e iniziano a suggerirti l’idea per una sequenza, poi un titolo che dà un senso alle cose fatte. Sarebbe bello che le cose venissero sempre da sé, naturalmente. Mi accorgo che quando ci metto dell’intenzione e forzo le cose, i risultati sono meno sorprendenti, più scontati. Ricalcano idee già viste. La processualità è un altro degli insegnamenti che Guido ci ha passato. Lavorare su un’idea che si fa durante il processo e non su qualcosa di preconcetto da illustrare. Uno dei primissimi lavori che ho fatto nasce da un viaggio in Sardegna in moto con un mio amico, in due in vespa. Al porto di Olbia mi dimenticai sul molo la mia macchina tipo usa e getta, per poi rendermene conto qualche minuto dopo. Quando siamo tornati indietro alcuni operai si stavano facendo delle fotografie con la mia macchina, una volta a casa ho sviluppato il rullino, le ho viste e ho pensato: non posso non farci un libro! L’ho intitolato Queste sei fotografie ed era esattamente quello che era successo nell’ordine, nessuna rielaborazione… nessuna idea in più.
Ci spostiamo nello studio in cui Marcello stampa e lavora e mi mostra alcuni negativi. Torniamo a parlare del tema della sfida cui pone davanti il banco ottico e dell’approccio rituale che implica il suo utilizzo.
M: C’è un episodio che mi piace raccontare. Mio padre era farmacista, e ogni giorno un ragazzo a metà mattina entrava a prendere una siringa e una fiala. Un giorno mio padre gli chiese se volesse un pacco intero di siringhe per comodità, per non dover andar lì tutti i giorni. Il tipo gli rispose che farsi per lui era un rito: decidere di farsi, andare a comprare tutto l’occorrente ecc… e che non lo programmava prima. La componente rituale ha un suo significato sostanziale. Il mio scopo non è solo il far una fotografia ma tutto il tempo che impiego a sistemare il fuoco, a trovare il punto giusto, a guardare la luce, a star lì. A questo si lega anche la scelta di fotografare il posto in cui vivo, perché ho i miei appuntamenti con la luce. Questo ad esempio è il mio garage e l’ho osservato tante volte per accorgermi che a quell’ora il quadrato nero crea un’ombra a forma di Z!
Sfogliamo alcuni libri e Marcello mi mostra un ritratto di Guido Guidi, contenuto in Eggs and Asparagus, in cui il fotografo è appoggiato ad una scopa di saggina, mentre osserva un pavimento di cemento che sembra essere appena stato stato pulito.
M: Il far pulizia nell’immagine di cui ti parlavo prima. Guido, proprio come un maestro Zen, dice: “se vuoi diventare un bravo fotografo, alzati alle cinque della mattina e pulisci il pavimento”. In un qualche modo anche far fotografie è un modo di disciplinarsi, ti porta ad essere un pò più attento e meticoloso. Io mi sento vicino a Mattia Moreni che diceva di far parte del “distrattismo”, quindi un pò di disciplina non può che farmi bene.
D: E chi, oltre a Guido, vedi come maestro?
M: Bruno Baleotti e i miei genitori.
NOTE:
1. L. Nostri, L’esperienza del luogo. Fotografia e territorio in Romagna dagli anni ‘70 ad oggi, in (a cura di) F. Bertoni, Officine artistiche in Romagna 1900-2017, Imola, La Mandragora, 2018.
2. By the Ways, a Journey with William Eggleston, 2006.
3. G. Guidi, La figura dell’orante, Edizioni del Bradipo, 2012.
INDICE IMMAGINI:
1 Massa Lombarda, 08.08.2014
2 Bologna, 20.10.2015
3 Massa Lombarda, 18.07.2020
4 Dersu VII, Massa Lombarda, 10.09.2015
5 Massa Lombarda, 14.04.2016
6 Guido, Ronta, 2016